Pittsburgh, la citta' laboratorio dell'auto senza conducente
Pittsburgh, la citta' laboratorio dell'auto senza conducente

Pittsburgh, la citta' laboratorio dell'auto senza conducente

La prima volta che Bill Peduto ha viaggiato su una vettura autonoma e’ rimasto quasi deluso. “Che parola ho utilizzato all’epoca? Ah, si’: sopravvalutato. Non c’e’ nessuna differenza con un’auto normale”, dice il Sindaco di Pittsburgh (Pennsylvania), accarezzando la testa del labrador che sta con lui in ufficio. Un anno fa il nostro Sindaco ha dato il via libera a Uber per far circolare nella sua citta’ delle auto autonome. “All’inizio le persone avevano paura. Si immaginavano che queste auto sarebbero finite sui marciapiedi, avrebbero causato degli incidenti, e che io ero folle ad averglielo lasciato fare..
Nello stesso tempo, tutti facevano foto e video al loro passaggio. Oggi fanno parte del paesaggio. Ah, si’! Le persone si lamentano che viaggiano troppo lentamente. In effetti, sono le uniche a rispettare i limiti di velocita’ a Pittsburgh”, dice ridendo colui che si vanta di essere il Sindaco della “prima citta’ al mondo dove avremmo potuto ordinare un’auto autonoma”.
Mentre altrove queste auto appartengono ad un lontano futuro, esse sono gia’ una realta’ nelle strade di Pittsburgh. In questa citta’ di 300.000 abitanti (piu’ di 2 milioni nell’area metropolitana) ubicata ai bordi della catena montuosa degli Appalachi, chi chiama una vettura Uber puo’, con una certa possibilita’, vedere arrivare una grossa Volvo grigia coi vetri colorati. Le si riconoscono perche’ sul loro tetto e’ montato una sorta di faro -in realta’ un lidar-, chiave della vettura autonoma, che invia raggi laser per cartografare la strada in 3D in tempo reale.
Per Uber, una grande sfida
A bordo, un dipendente di Uber -attualmente un obbligo legale in Pennsylvania- prende appunti, risponde alle domande dei passeggeri, e puo’ intervenire sulla guida in caso di bisogno. Uber sostiene di possedere 100 auto autonome a Pittsburgh, e ogni giorno ne circolano qualche decina. L’azienda, la cui sede e’ a San Francisco, ha anche fatto dei test a Phoenix, Arizona.
Ma e’ a Pittsburgh che si gioca in gran parte il futuro di questa vicenda. E’ qui, nel mezzo di una terra di nessuno di luoghi desolati e garage, che Uber ha installato il suo centro di ricerca e di sviluppo (R&D) sull’auto autonoma, in cui fa lavorare 700 persone.
L’investimento sara’ di diverse centinaia di milioni di dollari. Per Uber e’ una grande sfida: e’ grazie a questa tecnologia che l’azienda, valutata 68 miliardi di dollari (55 miliardi di euro) intende dar vita ad un modello economico perenne, in cui sara’ proprietaria di una grande flotta di auto senza conducente. La sua situazione finanziaria e’ nota: oggi in deficit, Uber si sviluppa grazie al sostegno di alcun fondi di investimento, che hanno versato 11 miliardi di dollari nell’azienda dopo la sua creazione nel 2009.
La fase sperimentale durera’ ancora qualche mese, ma la formalizzazione ufficiale del suo servizio e’ prevista presto: a novembre del 2017, Uber ha ordinato 24.000 Volvo, che dovra’ ritirare nel periodo 2019-2021.
Un ecosistema di start-up
La piattaforma americana di auto (per il momento) con autista non ha scelto Pittsburgh a caso. La “steel city” dal passato glorioso, piegata dalla chiusura delle industrie dell’acciaio degli anni 1970 e 1980, ha un gioiello ancora intatto: l’universita’ Carnegie-Mellon. E piu’ particolarmente il suo dipartimento di informatica e robotica, apprezzato dal mondo intero.
E questo e’, con Stanford e il Massachusetts Institute of Thechnology (MIT), uno dei centri della ricerca sull’intelligenza artificiale (IA). Dai suoi laboratori sono state prodotte macchine per controllare le rovine della centrale di Three Mile Island, capaci di guidare per l’esplorazione spaziale… Nel 2007, la prima vera auto autonoma di Carnegie-Mellon, conosciuta col nome di “Boss”, ha vinto un concorso internazionale lanciato dal governo americano. E’ da quel momento che le tecnologie legale all’IA hanno cominciato a crescere notevolmente a Pittsburgh.
In citta’ ha sede tutto un ecosistema di start-up intorno alle auto autonome, spesso lanciate dai ricercatori di Carnegie: Alr Al (in cui la Ford ha investito 1 miliardo di dollari), Aptiv (dove BMW ha investito), Aurora, che e’ partner di Audi, Edge Case Research… e Facebook vi hanno anche aperto dei centri di osservazione.
Quando nel 2014 Uber cerca un luogo per il suo centro di ricerca, Travis Kalanich, l’ex-ad, punta su Pittsburgh. Dove vi giunge con un metodo che crea polemica: assume quaranta ingegneri e ricercatori del NREC del Carnagie-Mellon, il centro che si occupa di ricerca applicata in robotica e sistemi autonomi e che lavora per la Nasa, di grandi costruttori di automobili o per il dipartimento americano della difesa. Google ha anche assunto diversi ingegneri per la sua filiale di Waymo.
“Nuova frontiera”
In tutto questo c’e’ Carl Wellington, che aveva conseguito il suo dottorato a Carnage-Mellon dieci anni prima e lavorava al NREC su dei trattori autonomi. Questo sorridente trentenne, ingegnere presso Uber, si reca ormai tutti i giorni nei moderni e sicuri locali dell’azienda. Chi vi entra deve mostrare le proprie credenziali: in questa corsa contro il tempo, Uber teme piu’ di tutto lo spionaggio industriale. La materia e’ al centro di questioni molto attese in California, dove Google accusa uno dei suoi ex-dipendenti di aver trafugato migliaia di documenti prima di fondare la sua start-up di camion autonomi, Otto, acquistata qualche mese dopo da… Uber.
Nella ampia sala dei prototipi industriali di Uber, Carl Wellington ricorda la missione del suo lavoro: l’autonomia, associata a dei servizi di auto su richiesta e condivise, deve permettere a sempre piu’ persone di rinunciare al possesso di un’autovettura. E a tutti gli altri aspetti secondari che sono associati a questo possesso.
“E’ la nostra nuova frontiera”, dice l’ingegnere, sotto pressione per cercare di smantellare il mito dell’auto individuale, e’ pronto a rinunciare ad uno dei pilastri dell’America Way of life. “Con Uber, siamo andati incontro a quella parte di popolazione che prende delle vettura a domanda. Con l’autonoma, l’obiettivo e’ di ingrandire ancora questa base”. “Si pensa che l’auto autonoma sara’ la leva del cambiamento delle citta’, e della riappropriazione da parte degli abitanti di alcuni spazi, come i parcheggi” Come tutti gli attori del settore, Uber fa presente anche il calo del numero di incidenti della strada che l’autonoma porterebbe.
Reticenze
Oggi, se l’essenziale di questa tecnologia e’ targata Uber, “c’e’ ancora qualche piccolo punto da migliorare essenzialmente per quando c’e’ la neve”, riconosce Wellington. E’ chiaro che lungo le ampie strade di Pittsburgh, le Volvo di Uber si muovono gia’ bene: cambiano fila dolcemente, si fermano se un pedone o una bicicletta compaiono, anticipano i semafori.. Piccolo problema: quando un camion o un bus e’ fermo sulla strada, l’auto autonoma attende la ripartenza di questo veicolo, invece di superarlo.
Oggi, i problemi della guida autonoma, sono i luoghi non strutturati”, spiega Herbert Martial, il francese che dirige il Robotics Institut di Carnegie-Mellon. “In autostrada va bene. A Parigi, un sabato sera, e’ piu’ complicato. C’e’ ancora da lavorare sull’anticipazione dei comportamenti umani, sulle rotonde, sulle rampe di accesso. Questo si riferisce alla comunicazione non verbale tra veicoli, ancora difficile da trascrivere, spiega questo ex dell’Ecole normale superieur (ENS) Cachan, che si e’ installato a Pittsburgh da trenta anni, dopo aver conseguito un dottorato all’Istituo nazionale di ricerca in informatica e automatizzazione (Inria).
Ma se queste auto sono ormai parte del paesaggio di Pittsburgh, esse suscitano ancora delle reticenze molto concrete presso gli abitanti. Laura Wiens, rappresentante di un’associazione di utenti dei trasporti pubblici, ricorda che le Volvo di Uber sono circondate da telecamere (sette) e di percettori, e accumulano migliaia di dati su strade, passanti…
Il loro uso da parte della polizia, il loro pirataggio o la loro rivendita “sono un vero rischio”. Uber sostiene di non aver intenzione di conservare questi dati. “E anche se lo vogliamo, sarebbe impossibile perche’ i volumi sono troppo importanti”, dice Wellington.
I veicoli di Uber non sono elettrici
L’altra preoccupazione degli abitanti, e’ che lo sviluppo massiccio di questi veicoli non riduca l’offerta di trasporti pubblici, che diventerebbero poco redditizi. Nei nuovi schemi di mobilita’, numerosi equilibri andranno in pezzi.
Bill Peduto ne e’ consapevole: “Sicuramente l’auto autonoma avra’ un impatto sulle nostre finanze pubbliche. I nostri guadagni dai parcheggi diminuiranno, come le tasse percepite dalla benzina”. “Tutto questo presuppone di profondamente ridisegnare le citta’”, riconosce il Sindaco, che sta preparando un memorandum in proposto.
“Intendo fissare dei principi come la condivisione dei dati con la citta’, tariffe ridotte per alcuni ambiti pubblici, possibilita’ di pagare senza carta di credito”. Il Sindaco vorrebbe anche che certe aziende partecipassero al mantenimento delle strade. Laura Wiens suggerisce che le autorita’ pubbliche “dispongano di una piccola flotta di auto autonome, per garantire l’accessibilita’ a questo mezzo di trasporto a tutti”. Un altro aspetto da’ fastidio in modo particolare al Sindaco, lui che ha firmato l’accordo di Parigi: che le auto di Uber non sono elettriche.
Riguardo agli autisti che andrebbero a perdere il loro , Peduto si dimostra fatalista: “Non si sa a cosa assomiglieranno i lavoratori tra dieci anni”. Alcune associazioni domandano la creazione di una “fondo di transizione” alimentato dalle aziende, per finanziare la riconversione di questi lavoratori. “Se non si fa nulla, questa situazione puo’ essere un vero dramma”, dice Wiens. Pittsburgh, che sta per far uscire la testa dall’acqua, ha avuto la sua parte. Con la chiusura delle fabbriche, essa ha perso la meta’ della sua popolazione nello spazio di cinquanta anni, Nessun problema di andare incontro ad un muro simile per la seconda volta.
(articolo di Jessica Gourdon, pubblicato sul quotidiano Le Monde del 31/01/2018)

Condividi nei social