Una immensa discarica di vestiti usati tra oceani e deserti

L’industria dell’abbigliamento e dei prodotti tessili contribuirebbe alla produzione globale per 2.400 miliardi di dollari.

L’abbigliamento, sintetico o trattato con sostanze chimiche, può impiegare 200 anni per degradarsi ed è altamente tossico come i pneumatici e le materie plastiche; molti anni fa i materiali utilizzati erano invece naturali come il cotone, mentre attualmente sono utilizzate fibre sintetiche, come per esempio il poliestere il cui periodo di degradazione è basso.

La Ellen MacArthur foundation informa che, nell’ambito dello spreco sugli abiti usati, siamo al livello di un camion al giorno il quale riempie le varie discariche dislocate nel pianeta terra, come l’esempio visto dalla nostra corrispondente nel deserto di Atacama.

Vanessa Friedman, della sezione moda del New York Times, ha scritto nel quotidiano del novembre 2021 che nel Cop26, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, svoltasi lo scorso autunno a Glasgow hanno riferito all’unanimità: “la moda è un comparto industriale dei più inquinanti”.

Alden Wicker, statunitense collaboratrice di diverse testate, ha detto che: «Ci sono ovunque indizi evidenti che qualcosa non va, come i vecchi vestiti gettati anche sulle coste dell’Africa orientale».

Il fast fashion contribuisce molto a generare questi rifiuti perché la logica è usare/buttare rapidamente un indumento. Questo porta ad avere situazioni aberranti come il Great Pacific Garbage Patch, un’isola delle dimensioni della Francia che galleggia nell’Oceano Pacifico.

Good On You, un sito che valuta i marchi della moda sulla base della loro eticità e sostenibilità, definisce il fast fashion come “abbigliamento economico e alla moda che soddisfa la domanda dei consumatori, i quali poi li gettano dopo averli usati poche volte”.

Quanto sopra porta a far capire la ignoranza di questi consumatori nell’ambito dell’ecosistema con problematiche notevoli, spesso di natura inquinante e cancerogena. Ma non solo.

Sarebbe opportuno che i main stream, quelli soprattutto della tv e carta stampata, svolgessero il loro secondo le regole deontologiche, informando i lettori ad un comportamento meno compulsivo nell’acquisto del fast fashion ricordando ad esempio quanto accadde nell’aprile del 2013 nella periferia della capitale del Bangladesh, Dhaka, dove crollò una fabbrica la quale uccise oltre 1000 persone ferendone quasi 3000 le quali diverse hanno riportato lesioni permanenti.

Ora qualcuno potrà dire che sono cifre spropositate, ma con un pò di volontà consigliamo nel fare qualche ricerca sui motori di ricerca inserendo – Fabbrica Rana Plaza – .

Comunque vi diamo un indizio; Shams Rahman e Aswini Yadlapalli della Rmit University in un articolo del 2021 su The Conversation scrissero: «Il giorno prima erano state scoperte crepe strutturali nell’edificio. Le attività ai piani inferiori (negozi e banca) avevano chiuso immediatamente mentre le cinque fabbriche di abbigliamento ai piani superiori facevano continuare a lavorare i loro operai. La mattina del 24 aprile 2013 ci fu un’interruzione di corrente e i generatori diesel in cima all’edificio vennero accesi. Poi l’edificio crollò»@.

La fabbrica produceva vestiti per diverse catene internazionali fra cui, riporta la pagina della campagna Clean Clothes@, Mango, El Corte Inglés e Benetton. Alcune di queste catene, come Benetton, Auchan, Primark, hanno pagato compensazioni, ma non tutte hanno reso noto l’ammontare.

Fashion transparency index di Fashion revolution, una piattaforma nata dopo il disastro del Rana Plaza e composta da accademici, addetti ai lavori del comparto moda, rappresentanti dei lavoratori e comuni cittadini, cerca di sensibilizzare le aziende ed i consumatori con rapporti periodici e statistici, affinché si responsabilizzano vicendevolmente evitando l’uso breve e getto veloce riempiendo le discariche.

Fonti
Alden Wicker, giornalista statunitense.
Nazioni Unite – press office
Banca Mondiale – press office
Boston consulting group (Bcg)
Global fashion Forum
Vanessa Friedman – New York Times
Ellen MacArthur foundation
Lucia Capuzzi – Avvenire
Rahman e Yadlapalli – The Conversation
Good On You Fashion
Fashion transparency index di Fashion revolution,
Laudes foundation Fylantropy
Vatican .

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